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Il Samaritano, Teatro di confine con i ragazzi delle Comunità Regina Pacis

Aggiornamento: 2 ago

di Dino Garrafa


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Scrivere e mettere in scena una parabola così nota come quella del Buon Samaritano poteva rivelarsi un’operazione rischiosa. “Il Buon Samaritano” è, per antonomasia, il racconto evangelico che più di ogni altro racchiude in sé l’essenza del messaggio cristiano: Ama il prossimo tuo come te stesso. Cosa avrei potuto aggiungere a una storia di per sé già così completa?

Forse lo sguardo. Sì, lo sguardo. Contemplare la parabola e i suoi personaggi con uno sguardo autentico, disincantato, profondamente “umano”.

Non volevo raccontare una storia lontana, antica, che appartenesse ad altri. Volevo entrare nel cuore di quella vicenda con occhi nuovi, e soprattutto con voci vere.

Questa riscrittura nasce proprio da qui: dalla necessità di dare corpo e voce a quell’umanità invisibile che spesso ci circonda, e che troppo spesso ignoriamo. L’umanità di chi cade ai margini della strada. Di chi viene giudicato, evitato, dimenticato. Di chi, nonostante tutto, sceglie ancora di prendersi cura.

Ma questa opera non è solo un testo teatrale. È diventata un’esperienza di vita condivisa, perché a portarla in scena sono i ragazzi di una comunità terapeutica: la Comunità Regina Pacis di Cosenza, fondata da Don Dante Bruno.


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Gli attori sono persone giovani e meno giovani che stanno affrontando, con coraggio, il loro personale deserto. Ragazzi che, in cammino verso una rinascita, hanno scelto di dare voce a una storia che li rappresenta più di quanto possa sembrare. Nel loro modo di interpretare non c’è nulla di moralistico o retorico: c’è autenticità, fragilità, speranza.

C’è la loro storia, che si intreccia con quella di Tobia il Samaritano, del Viandante, e forse anche con quella di Barnaba, il locandiere che, lentamente...

Anche il luogo dove si sviluppa la vicenda ha un significato profondo: la Locanda è il simbolo della cura e della rinascita. Rimanda alla Comunità, agli ospedali, ma anche alle famiglie che accolgono: figli, padri, madri, fratelli che si trovano nel buio e nella sofferenza dell’anima.


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Scrivendo e dirigendo questo lavoro ho avuto il privilegio di vedere l’arte trasformarsi in incontro, in cura reciproca. Ho visto il teatro diventare un luogo in cui non si finge, ma ci si scopre. In cui non si recita per evadere, ma per raccontare — finalmente — qualcosa di vero.

In scena ci sono parole ispirate al Vangelo, ma la vera buona notizia la portano loro: attori non professionisti, ma pieni di verità. Samaritani per davvero, che si fermano, si chinano e — pur feriti — scelgono di curare.

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A loro va il mio grazie. A chi assisterà allo spettacolo, il mio invito: fatevi toccare. Non da un testo, ma da una presenza viva.







Dino Garrafa

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