di Dino Garrafa.
La mia è l’età dei bilanci. La fase della vita in cui si fanno i conti con i rimpianti, le scelte, le gioie e i rimorsi. Qualche volta ci ho provato, affacciato dal balcone di casa, a fare i conti con me stesso ma, dopo qualche minuto, ho sempre preferito chiudere gli occhi, non pensare, e inebriarmi con il profumo dei gerani che mia madre amava tanto. Stavo a occhi chiusi come adesso, solo che adesso, anziché il profumo dei gerani, avverto l’odore acre di disinfettante e guanti in lattice. La macchina alla quale sono collegato emette un suono ritmicamente perfetto. Io amavo la musica. Da bambino mi chiamavano “ndringhete e ndranghete” per la passione che avevo per la chitarra. Mi sono sposato giovane e mia madre venne a vivere in casa con me e mia moglie. Ho sempre lavorato tanto, trascurando moglie e figli. Non è vero che lo facevo per tirare avanti la famiglia. Per me il lavoro è sempre stato una fuga dalle responsabilità familiari. Trovavo ripugnante dover cambiare pannolini puzzolenti, insostenibile fare la spesa e insopportabile la noia che provavo nel dover giocare con i miei figli piccoli. Non è che non volessi giocare con loro, semplicemente, non riuscivo. La mia mente era impegnata a progettare gli impegni di lavoro del giorno dopo. Mi hanno detto che l’intervento chirurgico è delicato ma necessario, di non preoccuparmi. L’anestesia non sarà completa perché è indispensabile che loro monitorino costantemente il mio livello di vigilanza e il mio grado di reattività agli stimoli. Nonostante il rischio di eventi emorragici durante l’intervento, mi hanno iniettato degli anticoagulanti per evitare che dalle mie arterie ostruite da anni di fumo e alimentazione malsana, si stacchi una scheggia mortale. Per me, non hanno avuto scelta. Sono tranquillo. Andrà tutto bene. Mi hanno attaccato il respiratore. Stanno operando. I miei figli, ora adulti, sono dietro la porta d’acciaio della camera operatoria, ad aspettare che tutto finisca. Quando loro sono nati, io non ero lì, dietro la porta ad attenderli. Arrivavo sempre in ritardo e, quando entravo nella stanza dell’ospedale, mia moglie nel letto, i parenti, il profumo di pasticcini alla mandorla e di liquore all’anice, mi provocavano una sorta d’imbarazzo che io, i miei figli appena venuti al mondo, facevo fatica anche a prenderli in braccio. Come avrei potuto io, così rigido e poco libero nell’esternare i sentimenti, a comunicare, con un neonato? Facendo smorfie strane? Emettendo con la voce suoni buffi dei quali io stesso mi vergognavo? . Il mio cuore. Lo sento amplificato. Batte regolarmente. Spesso si associa la parola “cuore” alla parola “amore”. Io ho amato ma, forse, di un amore ammalato del cancro dell’incapacità di amare. Ricordo quando mia moglie mi disse che nostra figlia aveva avuto le sue prime mestruazioni e mi sollecitava dunque a dimostrarle, con l’orgoglio di padre, quel passaggio importante della sua età. Non lo feci. La cosa m’intimidiva alquanto. Eppure nel lavoro ero forte, comunicativo e brillante. Quando ero a casa, preferivo isolarmi. Sentivo che nulla mi appartenesse veramente. Preferivo rifugiarmi sul balcone, la domenica pomeriggio, e respirare il profumo dei gerani. Non voglio giudicarmi così aspramente. Io un padre non l’ho mai avuto. Abbandonò mia madre incinta e si fece un’altra famiglia. A vent’anni lo cercai e lo trovai. Andai da lui senza preavviso, portando con me con una borsa carica dei libri che avevo letto, e degli attestati che avevo conseguito sul lavoro. Arrivai. Lui mi guardò commosso. Mi augurò buona fortuna. Mi chiese di andare via. Avevo giurato a me stesso che sarei stato un padre diverso ma, come spesso accade, si perpetuano gli stessi errori che abbiamo più condannato nei nostri genitori. “Tutto bene? Che giorno è oggi?”, “ Il quattro gennaio 2009”. “ Dove si trova adesso?”, “ Nella sala operatoria dell’ospedale Gemelli di Roma”. “Bene, adesso avvertirà un leggero fastidio, non si preoccupi, nessun dolore”, “Va bene, grazie”. La gestione e l’educazione dei figli erano delegate a mia moglie con la supervisione, lo ammetto esasperante, di mia madre. Per quanto riguarda le figlie femmine io mi sentivo in qualche modo svincolato. Cose di donne, dicevo, mentendo a me stesso. Per quanto riguarda il figlio maschio io non avevo giustificazioni. Avrei dovuto essere io a trasmettergli la forza, il coraggio e la fiducia necessari per affrontare le difficoltà e le responsabilità della vita, a sorreggerlo nello scoraggiamento, a sedere con lui, magari sul balcone dei gerani ed ascoltarlo. Non l’ho mai fatto. Figlio, non ti ho mai portato al parco, al cinema, al circo, né mai sono venuto a scuola a parlare con i tuoi insegnanti. Ricordo che il giorno della tua prima comunione non sono entrato in chiesa e sono rimasto fuori a fumare. Fumavo tanto, anche in stanza da letto, pur sapendo che vostra madre fosse asmatica e che voi, che dormivate nella stessa stanza, eravate solo dei bambini. Quando cominciasti a crescere, mi disturbava la tua ingenuità. Io mi sforzavo di fingere divertimento, quando tu tornavi da scuola e mi raccontavi barzellette senza senso. Sorridevo per un attimo, poi per paura di non riuscire a mentire, ti lasciavo li, con tua madre, e andavo a rifugiarmi, da solo, sul balcone dei gerani. Che cazzo c’è? Cazzo di dolore. Altro che un leggero fastidio. Battito accelerato. Cosa stanno iniettando nel braccio? Brucia. Mamma mia. Passato. Tutto a posto. E’ difficile stare tra la vita e la morte. La vita non è un gioco. Io non sono mai stato capace di giocare se non a poker, con gli amici, per poi tornare a casa, di notte, ubriaco e vomitare nel letto. Io ricordo tutto. Ricordo di quella volta, potevi avere sette anni, che entrai in casa e tu ti facesti trovare con indosso una sottana e le scarpe con i tacchi di tua nonna. Tu ridevi a trentadue denti, come solo un bambino sa fare. Io mi arrabbiai. Ti dissi di non farlo mai più. Avevo paura. Paura che la presenza di tante donne in casa, ma soprattutto la mia assenza come uomo e padre, poteva in qualche modo influire sulla tua identità sessuale. Ora capisco il tuo era soltanto un gioco. Ricordo anche che sotto casa nostra c’era una pizzeria ed io, a tarda sera, la oltrepassavo appesantito dalla mia ventiquattrore piena di scartoffie, salivo le scale ed entravo in casa. Tua madre e voi figli dormivate. Ad attendermi c’era tua nonna che mi aiutava a sfilarmi la giacca e mi spingeva verso il tavolo del soggiorno, dove aveva preparato la cena che avrei dovuto mangiare fino all’ultimo boccone. Mi accudiva come un bambino. Io amavo la sera, bere birra ghiacciata, e allora capitava, che ti svegliassi nel sonno, tu avevi dieci anni, e ti mandavo, dal caldo del tuo letto, in pigiama e pantofole, a comprarmi la birra, proprio sottocasa, in quella pizzeria dove pochi minuti prima ero passato io, lentamente. Non sapevo se il fatto che mi disturbava fosse che tu eri così diverso da me, o se perché la tua sola presenza mi ricordava quello che io ero stato e come avrei dovuto continuare a essere. Mi creava disagio stare con te a tavola. A tavola dunque leggevo il giornale, mentre vostra madre tentava di gestire l’esuberanza tua e delle tue sorelle. Il giornale che piantavo davanti a me, era anche per nascondere il mio piatto. Spesso tua nonna preparava per me particolari prelibatezze a voi negate. La sera di Natale no, non mi era permesso leggere il giornale, allora il mio disagio aumentava. Una sera della vigilia di un Natale, voi a tavola facevate chiasso ed io lanciai un bicchiere colmo di vino sulla parete. Il bicchiere si ruppe e la macchia rossastra di vino rimase sulla parete per mesi, a ricordarmi quanto fossi stato crudele. Qualche volta ti osservavo. Passavi ore sul balcone dei gerani a costruirti improbabili chitarre, con scatole di scarpe e con i fili di rame che sfilavi dai cavi elettrici delle vecchie lampade. D’estate, al mare, anche in quell’occasione ti svegliavo al mattino presto, caricavo l’ombrellone sulle tue spalle, io portavo la sedia sdraio, e insieme, alle otto del mattino, andavamo in spiaggia. A quell’ora altri bambini non ce n’erano. Io leggevo il giornale e tu sedevi in riva al mare, assonnato, a pensare cosa non lo so. “Abbiamo terminato, è andato tutto bene”, “Grazie dottore, grazie a tutti”, “Adesso attendiamo un’ora, poi sarà condotto nel reparto di terapia intensiva, dove resterà per quarantotto ore, dopo di che la prognosi sarà sciolta. Non si preoccupi, la possibilità di eventi trombo embolici nella fase post operatoria è da escludere e comunque, ci siamo noi”. Figlio, ancora quarantotto ore e ti prometto che andremo a fare una passeggiata tu ed io, qui vicino, nel giardino del Gemelli, dove sono piantati gerani profumati e, con le lacrime agli occhi, finalmente ti dirò che.
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