di Dino Garrafa.
Io sono Barabba, l’assassino, merito la morte, ed è giusto che io domani sia messo in croce.
La luce. La luce che passa tra le sbarre mi ricorda che la notte è finita e che ormai, per me, tutto è compiuto.
Sento i passi e le voci delle guardie avvicinarsi. Stanno venendo a prenderci. Sto per andare a morire in croce. Gestas e Dismas hanno capito anche loro. Urlano, i due ladroni.
Si apre la porta, entra un drappello di guardie, li portano via.
Dismas mi guarda con gli occhi sgranati come se mi implorasse di fare qualcosa per lui.
Io abbasso il capo.
Desidero un po’ di pace, ma io non so cosa sia la pace, e adesso mi rimane troppo poco tempo per sperare d’incontrarla.
Il sole è alto. Eccoli, arrivano. Si sono fatti attendere. Tra poco m’inchioderanno a una croce. Dio, fa’ che io muoia subito, non voglio soffrire. Rumore di enormi chiavi, la porta si apre ed entrano. Sono in sei. Mi tolgono le catene ai piedi, mentre tra loro parlano nella loro lingua. Ridono di me, questi bastardi. Mi spingono fuori dalla cella trascinandomi per la catena che mi tiene legate braccia e mani.
Attraversiamo il breve corridoio. Dalle piccole sbarre sulle porte delle celle, penzolano braccia e mani di altri prigionieri. Una cella vuota, aperta... devono averlo già liberato. Alcuni prigionieri accennano un saluto. L’ultimo saluto che si dà a un condannato a morte.
Camminiamo ancora. Ricordo bene il percorso, ora dovremo scendere delle scale ripide, attraversare un cunicolo basso e curvo e poi…
Continuano a ridere, questi figli di puttana, mentre siamo arrivati alle scale. Anziché scendere, però, stiamo salendo in alto. Perché? Che cosa vogliono farmi? Torturarmi? Farmi parlare prima di uccidermi? Mentre continuiamo a salire, cado sui gradoni di pietra. Un dolore fittissimo al ginocchio. Mi trascinano di forza, come se io non fossi un uomo, ma un sacco senza vita. Un soldato mi lega una corda al collo. Adesso per loro sarà più facile portarmi con forza su per le scale. Cado di nuovo, questa volta con il viso in terra. Il sangue mi cola sugli occhi e vedo male, ma mi rialzo subito, non voglio dargli la soddisfazione di tirarmi su come fossi una bestia. Io sono Barabba l’assassino.
Mio Dio, non sento più le gambe e non riesco a respirare. Il cuore mi scoppia. Il sapore acre in bocca, soffoco nel mio stesso sangue. Vado giù per la terza volta, all’indietro. Credo di essere caduto su uno di loro che impreca e, prendendomi per i capelli, mi solleva rabbiosamente. Attraversiamo un altro lungo corridoio al termine del quale vedo la luce. Abbiate pietà. Non spingetemi. Cammino da solo.
Sono come un agnello portato al macello.
Sono Barabba l’assassino. Da bambino mi piaceva inchiodare le lucertole agli alberi. Maledizione, tra poco sarò io ad essere appeso al legno di una croce.
Non vedo l’ora che finisca questo strazio. Non vedo l’ora di morire.
Sento le voci di una moltitudine di gente. Arriviamo in un grande porticato all’aperto. Dio mio, quello seduto al centro è proprio lui: Ponzio Pilato in persona che parla alla folla a gran voce. Alla sua sinistra, poco distante da lui, in piedi, Gesù di Nazareth. Cosa diavolo gli hanno fatto. Il suo viso è una maschera di sangue. Il suo corpo seminudo è martoriato di lividi, segni di frustate, e sangue, tanto sangue. E perché poi quella corona di spine in testa? Ma cosa dannazione avrà fatto per meritare questo? Non ha più sembianze umane talmente l’hanno massacrato.
Di fronte a noi c’è una folla di persone tenuta a bada a fatica da centinaia di soldati.
Perché questo processo pubblico? Dove sono Gestas e Dismas? Perché non mi hanno portato direttamente sul Gòlgota. Capisco: vogliono che ci sia un processo con una condanna a morte già stabilita, e vogliono che tutto avvenga pubblicamente affinché nessuno osi più ribellarsi. Gesù invece... Sì, è tutto chiaro, l’hanno punito in modo esemplare, adesso lo libereranno, mentre io tra qualche ora sarò appeso a una croce.
Un soldato romano, da dietro, afferrandomi per i capelli, mi tira la testa su, affinché la gente possa guardarmi bene in viso. Sento la folla gridare il mio nome: Barabba! Barabba! Barabba! Le guardie romane mi portano via. Mi bendano gli occhi.
Il corridoio, poi le scale di fretta, ancora giù, poi il cunicolo stretto, poi ancora scale, una porta, un passaggio credo segreto, lungo, interminabile poi un’altra porta che si apre e mi trovo tra rovi e arbusti che feriscono senza pietà le mie gambe, le braccia e il viso. Camminiamo di fretta ancora, io non capisco. Mi slegano le mani e mi buttano a terra.
Vanno via. Ora sono solo.
Resto immobile fino a quando non sono sicuro che siano andati via. Tolgo la benda.
Mi hanno abbandonato nel giardino degli ulivi. Cammino a stento. Qui e là teli, coperte e una brace ancora fumante, come se qualcuno avesse dormito qui e fosse andato via di fretta lasciando le proprie cose in terra. Cerco un nascondiglio in mezzo alla fitta vegetazione. Il cielo d’un tratto si fa scuro, la terra trema, scoppia un temporale. Qui mi sento sicuro. Sono stanco. Mi addormento. Io Barabba l’assassino, sono vivo.
Mi svegliai all’alba del giorno dopo. Fu come fosse la prima alba della mia vita.
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